Gli auguri di Natale del Rettore Federico Visconti agli studenti
Cara studentessa, caro studente,
qualche giorno fa ho rilasciato un’intervista sulle grandi sfide che l’Università Italiana è chiamata a fronteggiare e sulle azioni che la LIUC ha intrapreso per farlo.
Ho pensato di trasformare quegli spunti in una lettera che rendesse partecipi, voi e le vostre famiglie, dell’avventura che stiamo vivendo. Non si presta a rivivere le emozioni della “lettera a Babbo Natale”, non brilla per sintesi, ma confido vi possa aiutare a cogliere cosa significa, per chi governa un’ Università, avere a cuore la crescita umana e professionale dei propri studenti.
Procederò per punti … buona lettura!
1. Educare, mestiere difficile, che dà soddisfazioni
Il punto di partenza è il ruolo dei percorsi educativi ai fini della costruzione dell’identità dei giovani, della loro crescita, della loro preparazione al mondo del lavoro. Sui carboni ardenti ci sono Scuola e Università, sollecitate da più parti a metter mano al “cantiere formativo”, rispondendo in modo efficace, efficiente, tempestivo, flessibile, disruptive, … (e avanti con gli aggettivi!) a interrogativi del tipo: cosa si aspettano imprese e istituzioni dai giovani che conseguono un diploma e/o una laurea? Qual è il punto di equilibrio tra competenze tecniche e abilità relazionali? Come sviluppare l’innovazione didattica e gli stage? Cosa significa realizzare ricerche rigorose sul piano del metodo e utili in termini di risultati? Come alimentare un circuito virtuoso di contaminazione tra Università, imprese e istituzioni?
Domande evergreen, valevano anche ai tempi di Cavour, di Einaudi, di De Gasperi, di Ciampi… Con almeno due sostanziali differenze. La prima è che gli scenari di contesto (sociali, culturali, economici, tecnologici…) stanno cambiando, da qualche lustro a questa parte, con una violenza dirompente. La seconda è che il confronto in materia educativa pende più verso il superficiale che il costruttivo. La società liquida produce mantra in chiave industriale (i bamboccioni e i baroni; i cronometraggi delle soglie attentive e i ranking delle conoscenze matematiche; il tablet, la LIM e il vecchio e caro gessetto… fino a giungere all’apocalittico “è bene che i miei figli studino all’estero perché in Italia non c’è futuro”) e gli antidoti stanno diventando merce rara, da conservare in naftalina.
Zizzagando tra carboni ardenti e mantra a gogò, ritengo che il progetto educativo della Scuola e dell’Università italiana sia distintivo e di valore. Me lo confermano i significativi risultati dei nostri giovani che vanno a lavorare all’estero tanto quanto quelli di chi ci va per completare il proprio ciclo di studi Universitari, con un Master, una Laurea Magistrale o un PHD. Sono cresciuto nell’era dei distretti, quando Biella, Sassuolo e la Brianza riempivano il mondo di tessuti, piastrelle e divani. Presto o tardi, dovremo guardare in faccia la realtà: ai nostri giorni, stiamo esportando competenze e idee, energie e passioni, risorse culturali e abilità relazionali. Non parlo di qualche centinaio di cervelli in fuga, che mangiano in testa a colleghi che hanno studiato in Università blasonate e con maggiori risorse delle nostre. Parlo delle centinaia di migliaia di giovani italiani che lavorano a Londra, Berlino, Barcellona, New York … Il problema è come mai il Paese non sia in grado di offrir loro “pari opportunità”. I talk show ci campano, i tweet imperversano, i like esplodono … Le parole abbondano, i fatti scarseggiano.
2. Le luci che illuminano l’Università italiana …
Il valore aggiunto dell’Università italiana prende forma nella statura culturale del modello, sensibile alla storia, rigoroso nei contenuti, attento al processo di apprendimento quanto ai modelli di valutazione.
Insegnare non è di per sé una questione tecnica. L’essenza del mestiere, scrive Severgnini, è “suggerire una prospettiva. Un insegnante è un minatore di talenti. Non ha il diritto di estrarli, ne ha il dovere”.
Apprendere, non è di per sé una questione tecnica. Cito Plutarco: “La mente non è un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere”.
In Italia, i minatori ci sono, i fuochi da accendere anche. La questione è la scintilla.
Sulla scintilla, il problema è la messa a fuoco dell’obiettivo. Come osservavo, Scuola e Università hanno il compito di contribuire alla costruzione dell’identità personale, culturale e sociale dei giovani.
Che vuol dire: far maturare il senso di responsabilità della persona, esercitare al pensiero critico, far sperimentare la complessità relazionale, esporre al rischio, catapultare nel problem solving, allenare alla tensione e alla fatica (anche fisica!), formare alle differenze tra semina e raccolto… Quando incontro i recruiters che assumono i nostri laureati, mi ricordano che il problema non sono tanto le competenze tecniche (semmai un certo gap lo si può colmare una volta in azienda), ma le attitudini e le capacità.
Il valore dell’Università italiana sta dunque nella capacità di gestire un punto di equilibrio, tanto sottile quanto dirimente. E’ “l’equilibrio pedagogico” tra ciò che cambia per effetto della tecnologia e ciò che permane in virtù della natura umana, della capacità di apprendere, dello spirito di adattamento. L’enfasi rivolta agli aspetti teorici avrà anche dei limiti, ma sviluppa eccellenze a livello di capacità di astrazione, di concettualizzazione, di generalizzazione. Prendo a prestito una metafora: l’albero della conoscenza. Se le competenze tecniche che servono al mondo del lavoro cambiano sempre più rapidamente, se le “foglie della conoscenza” nascono e muoiono con un tic (o con un click!), che valore ha un processo formativo imperniato sulla “pratica”? Ben vengano gli investimenti su ciò che permane, sull’albero e sulle sue radici. Solo così si possono nutrire le foglie e alimentarne il ricambio. Che gli studenti italiani rappresentino i migliori allievi di Darwin è da dimostrare: “It is not the strongest of the species that survives, nor the most intelligent that survives. It is the one that is most adaptable to change”. Però che in molti campi sappiano imparare cose nuove più velocemente di altri è fuori di dubbio. Un sano orgoglio, un po’ di coscienza di sé e del proprio valore, non guastano.
3. … e le ombre che la oscurano
Come ben sappiamo, le medaglie hanno due facce.
Semplificando la realtà, penso che i fattori che frenano la crescita del sistema universitario italiano siano di duplice natura.
Il primo è sul piano dei contenuti dell’offerta formativa. Tendenzialmente, in Italia si fatica a gestire l’evoluzione degli insegnamenti, ad inserire corsi nuovi e ad eliminare materie non più al passo con i tempi. Così come non si è particolarmente reattivi nell’innovare nei metodi di insegnamento, nel dare spazio alla didattica esperienziale, agli esempi applicativi, ai bagni di empiria…… poca pratica, troppa grammatica. Vale per l’Università ma credo valga anche per la Scuola.
Il secondo è a livello di flessibilità e di rigore decisionale. La sensazione è che all’estero le Università siano più allenate a prendere decisioni, a praticare i trade off, a proiettarsi in avanti. Più abituate (o sollecitate dal mercato?!) a superare modelli conservativi, ad abbandonare progetti non performanti, a rispettare le regole del gioco (poche e chiare), a cambiare direzione strategica, rivoluzionando quando necessario la governance e ridefinendo alla radice la proposta di valore.
A cosa metter mano, il più presto possibile? Innanzitutto alla rimozione dei vincoli normativi e burocratici che rallentano il cambiamento dei programmi e il funzionamento della macchina, vincoli efficacemente battezzati dalle parole di un Ministro della passata legislatura come “persistente malattia giuridica dell’Università italiana”. In secondo luogo, al ruolo della didattica, ridandole peso e dignità. Nel libro “Salvare l’università italiana”, delineando alcune scelte strategiche per la costruzione di un “futuro promettente”, gli autori osservano: “Tutti focalizzati sulla ricerca, dalla politica ai professori. E questo non è politicamente e socialmente accettabile. La didattica deve tornare ad essere centrale. Le Università devono sentirsi responsabili della formazione dei loro studenti e devono adattarsi agli studenti che le scelgono”. Pienamente d’accordo!
4. La LIUC: un progetto forte, enne cantieri in movimento
La LIUC, per la missione che persegue, per il sistema di relazioni in cui è immersa, per i valori di cui è permeata, sta affrontando, verrebbe da dire di petto, la questione educativa. Lo ha fatto di recente, promuovendo una ricerca e generando una pubblicazione dal grande valore simbolico: “Scuola, Università, Impresa – Ripensare le opportunità educative”. Lo ha fatto e lo sta facendo lavorando lungo alcune dimensioni fondanti di un moderno progetto universitario: l’affermazione del valore positivo dell’esperienza, della pratica e dei valori, punti di leva di valenza strategica quando tutto cambia velocemente; l’interdisciplinarietà e la contaminazione tra cultura scientifica e cultura umanistica; il perseguimento di una “via LIUC” alla internazionalizzazione; lo spazio dedicato alle soft skills, cioè alla dialettica tra “saper fare” e “saper essere”.
5. Sotto a chi tocca
Guardando avanti, le maggiori responsabilità del cambiamento toccano a noi, attori protagonisti della “filiera lunga”, quella che attraversa la Scuola Superiore, l’Università, le imprese, le istituzioni. La barca è la stessa e ogni tanto, data la posta in gioco, avverto sensazioni da Arca di Noè o giù di lì. Una nota bene finale: sulla barca ci siete anche voi giovani. Anche a voi è chiesto di mobilitarvi e le occasioni, messa da parte la retorica del “non ci sono più i giovani di una volta”, non mancano. Per cominciare, basterebbe che iniziaste a dimensionare correttamente il potenziale del vostro smartphone. Per soddisfare le vostre aspettative di crescita professionale (quelle della mitica piramide di Maslow) in futuro ci vorrà ben altro.